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In Italia vi è l’esigenza di un costruire un sistema di welfare che rispetti i diritti dei lavoratori, degli assistiti e delle loro famiglie. Si potrebbe prendere come modello proprio il lavoro di cura, riconoscendolo, anche economicamente e professionalmente, come un elemento fondamentale del futuro sistema integrato di assistenza locale oltre che della qualità del processo di personalizzazione delle politiche sociali

Affrontare una discussione sulle politiche di welfare senza considerare il ruolo importante e relativamente nuovo che gioca il lavoro di cura, priva qualunque approfondimento di un fattore determinante. Le condizioni che hanno negli anni riscritto le mappe dei bisogni di servizio, dicono di un Paese che, a causa di una serie di fattori, ha visto modificarsi lo spazio della domanda. Proprio in queste ore, la undicesima Commissione lavoro e Previdenza sociale del Senato ha licenziato il testo unificato sui caregiver familiari. In fase referente l’Organismo ha analizzato tre disegni di legge relativi ai soggetti che si occupano di assistenza a congiunti con disabilità. Il risultato dell’unificazione non tiene a nostro parere conto della molteplicità di situazioni che meriterebbero da parte del legislatore una diversa attenzione su un tema non banale che coinvolge ormai milioni di famiglie con vari gradi di gravità in termini di sovraccarico personale di salute, di relazioni e di ricadute economiche. Si rimanda per un approfondimento, ai lavori della Commissione che ha concluso l’ter.

Ma al di là della circostanza legislativa, la questione si presta ad un ventaglio più ampio di considerazioni.

E’ noto ai più il fatto che la popolazione italiana stia invecchiando inesorabilmente: nel 2015 l’indice di vecchiaia era pari a 157,7, circa 20 anni prima (1994) era di 111,6. L’invecchiamento (i suoi effetti) è un problema che riguarda praticamente tutto l’occidente e sta mettendo a dura prova i sistemi di welfare locali, progettati sulla base di una piramide demografica, in parte cambiata, che posizionava in fondo i giovani (lavoratori/contribuenti) mentre poneva al vertice gli anziani (pensionati/assistiti).

L’età che avanza è senza dubbio un dato positivo, ma essa è anche fonte di inediti problemi. In particolare, il trascorrere degli anni aumenta il rischio di diventare non autosufficienti. La non autosufficienza può interessare anche i giovani; non vi è dubbio tuttavia che essa cresca con l’aumentare dell’età. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat, tra i non autosufficienti, la fetta maggiore è occupata da persone di età pari o superiore ai 75 anni.

Dunque, tra età anziana e non autosufficienza esiste una stretta correlazione; è altrettanto chiaro che, data il sostanziale stallo dei fondi pubblici, il problema metterà ulteriormente a dura prova le famiglie e i sistemi locali di assistenza. Alcune tendenze in atto ci mettono in guardia dal sottovalutare il problema.

Secondo lo SPI Cgil (cfr. SPI Cgil, Le politiche per gli anziani non autosufficienti nelle regioni italiane, Roma 2016) la spesa per long term car, ossia ogni forma di cura fornita a persone non autosufficienti, lungo un periodo di tempo esteso, senza data di termine predefinita, raggiungerà il 3,2% del Pil nel 2060, mentre nel 2015 era pari al 1,9%. Tale spesa è per lo più dedicata all’assistenza domiciliare (circa l’80%, secondo le stime del Network Non Autosufficienza) e spesso, almeno per quel che riguarda il nostro Paese, risulta inadeguata e non garantisce un sostegno appropriato ai pazienti e alle loro famiglie.

Ricordiamo, infatti, che i quasi 500 mln stanziati nel 2017 dal Governo per il fondo per la non autosufficienza, per molte associazioni sono ancora insufficienti. Sul territorio, inoltre, l’offerta di servizi non è sempre presente e/o uniforme; ad esempio, l’assistenza domiciliare socio-assistenziale per disabili è offerta soltanto dal 67,2% dei comuni, mentre l’assistenza domiciliare integrata con servizi sanitari per disabili supera di poco il 32% (Istat, 2013).

L’esito di questa situazione non è difficile da immaginare: sono e saranno le famiglie a farne le spese se non si interverrà seriamente.

Secondo alcune indagini, infatti, i cittadini molto anziani, quando perdono l’autonomia, tendono a chiedere aiuto alla propria famiglia, in particolare ai figli (cfr. Irs, L’utilizzo e l’efficacia della spesa sociale – Milano 2014). Il Censis, inoltre, in una ricerca sull’impatto economico e sociale dell’Alzheimer, pubblicata nel 2016, rileva un altro cambiamento importante nella condizione dei caregiver: “se è vero che sono ancora i figli i caregiver prevalenti, aumentano molto in questi ultimi anni i partner (37,0% nel 2015 contro il 25,2% nel 2006), in particolare se il malato è di genere maschile”.

Quando i membri della famiglia non bastano o non possono garantire il proprio impegno, spesso si fa appello alle colf e alle badanti, ormai tradizionale risposta alla mancanza di servizi per gli anziani non autosufficienti. Ebbene, nel 2016 i lavoratori domestici contribuenti erano 866.747, un numero molto elevato anche se leggermente inferiore rispetto agli anni precedenti (Inps, 2016).

Il massiccio ricorso al mercato privato della cura ha costretto le famiglie italiane a spendere ingenti risorse per far fronte al problema. A volte, la riduzione della spesa familiare è stata assicurata dall’impiego di lavoratori, spesso donne immigrate, in nero o con contratti irregolari. Tuttavia, questo discutibile risparmio non sempre si è rivelato sufficiente. Per finanziare le cure dei propri cari non autosufficienti, nel 2012, 330.000 nuclei italiani hanno dovuto spendere tutti i propri risparmi, 190.000 hanno dovuto vendere l’abitazione con la formula della nuda proprietà, 150.000 si sono indebitate (cfr. Censis, L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni, Roma 2016). Date queste premesse, non stupisce che l’insorgere della disabilità/non autosufficienza aumenti il rischio di povertà anche delle persone anziane, target tradizionalmente meno esposto al fenomeno (M. Luppi 2015).

Nonostante i problemi e le distorsioni brevemente evidenziate sin qui, il ricorso al mercato privato non va demonizzato, anzi, nell’ottica di evitare la precoce istituzionalizzazione dei pazienti e aumentare sempre più l’impiego di assistenza domiciliare, occorre incentivare l’integrazione del sistema della cura: offerta pubblica territoriale, offerta privata (profit e non profit) e famiglie. Ma per fare questo bisogna superare la logica emergenziale e interrompere la catena dello sfruttamento dei forti sui deboli: del sistema pubblico inefficiente sulle famiglie; di un mercato di lavoro nero, grigio e sommerso che, agendo prevalentemente sul lavoro femminile e di lavoratrici immigrate, crea sacche di sfruttamento e di evasione dequalificando il lavoro di cura.

Di fronte a questo quadro di riferimento, si sente forte l’esigenza di un sistema di welfare che rispetti i diritti di tutti, dei lavoratori, degli assistiti e delle loro famiglie. A tal fine si potrebbe prendere come modello proprio il lavoro di cura, riconoscendolo, anche economicamente e professionalmente, come un elemento fondamentale del futuro sistema integrato di assistenza locale oltre che della qualità del processo di personalizzazione delle politiche sociali.

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