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Cosa c’entra il gioco del cucù con il REI? C’entra perché aiuta a comprendere in modo semplice l’importanza di aprirsi ad un maggior scambio e condivisione di informazioni per valutare l’efficacia e l’impatto degli interventi realizzati.

Chi non ha mai giocato a bubu-settete o al gioco del cucù? Penso tutti, ma nel dubbio spiego come si gioca. Si deve essere almeno in due, stando l’uno di fronte all’altro: uno dei giocatori si nasconde il viso dietro le mani e pronuncia la parola bubu-settete, al settete si tolgono rapidamente le mani dal volto suscitando nell’altro giocatore stupore e felicità.

Il divertimento nasce dal rapporto empatia e complicità, fatto di sguardi ed espressioni facciali, che si instaura tra i due giocatori.

Cosa c’entra il gioco del cucù con il REI? C’entra perché aiuta a comprendere in modo semplice l’importanza di aprirsi ad un maggior scambio e condivisione di informazioni per valutare l’efficacia e l’impatto degli interventi realizzati.

Torniamo al gioco del bubu-settete, rimanendo nell’analogia, assegniamo i ruoli ai diversi protagonisti: il volto del giocatore che si copre la faccia è quello della povertà nelle vesti del REI, le mani che coprono il volto sono le istituzioni pubbliche che detengono le informazioni, l’altro giocatore è interpretato dalle organizzazioni e tutti quei soggetti che hanno interesse a valutare, studiare e conoscere gli effetti delle misure contro la povertà.

La lunga gestazione che ha portato alla nascita del REI [legge n.33 del 15 marzo del 2017] racconta di un decennio di aggiustamenti del tiro e d’integrazioni legislativi che è possibile suddividere in due fasi: un inizio, dal 2008 al 2012, contrassegnato dall’erogazione di piccole somme a particolari fasce della popolazioni per l’acquisto di generi di prima necessità (le carte acquisto o social card); una seconda fase, dal 2012 al 2017, in cui la platea dei potenziali beneficiari è andata via via qualificandosi – con l’introduzione di una serie di caratteristiche socio-anagrafiche, occupazionali e reddituali –  e anche la risposta si è progressivamente ampliata, integrando il contributo economico con la definizione di un ventaglio di interventi e di servizi per l’inclusione attiva dei beneficiari (Sostegno all’Inclusione Attiva – SIA).

Quest’ultimo periodo è stato contrassegnato dall’avvio di una fase di sperimentazione della misura per migliorarne l’efficacia. Inizialmente la sperimentazione ha riguardato soltanto le aree metropolitane [D. L. n.5 del 2012, art. 60] e successivamente l’intero territorio nazionale [L 208 del 2015, c. 387]. Il decreto ministeriale del 10 gennaio 2013 descrive in modo dettagliato il disegno di valutazione della nuova social card. Si tratta di un impianto di valutazione contro fattuale attraverso il quale “misurare l’efficacia dell’intervento sulla base del confronto dei risultati raggiunti (dato fattuale) con la situazione che si sarebbe verificata in assenza della Sperimentazione (dato contro fattuale), utilizzando a tal fine le informazioni riferite ai gruppi di controllo. Potranno altresì adottarsi, ove opportuno, metodologie della valutazione partecipata” [art. 9, comma 5].

La ratio di questo poderoso impianto di analisi e di valutazione è stata confermata anche dal decreto ministeriale collegato alla legge che ha esteso la misura del Sostegno all’Inclusione Attiva alla totalità dei comuni [D. M. 26 maggio 2016, articolo 9], restringendo il campo della valutazione ad un campione di ambiti territoriali e non più comuni.La valutazione l’avrebbe dovuta realizzare l’ex ISFOL (ora INAPP), per conto del Ministero, mentre i comuni avrebbero dovuto formare i gruppi di controllo, somministrare i questionari e inserire i dati su una un’apposita piattaforma telematica gestita dall’INPS. Ad oggi degli esiti di queste sperimentazione non se ne sa nulla (da qui l’uso del condizionale). Probabilmente a rendere difficile se non impossibile la valutazione hanno concorso fattori di contesto (carenza di operatori, bassa dotazione strumentale e infrastrutturale) e organizzativi legati alla definizione dei ruoli e delle procedure nella catena di raccolta, trasmissione, analisi e valutazione dei dati. In breve, si è scelto un modello di valutazione che poco si confà con l’ambiente organizzativo, gestionale e, semplicemente, materiale in cui operano oggi i servizi territoriali nel nostro paese. Le difficoltà nell’attuazione del disegno di valutazione sono evidenti dai contributi più o meno ufficiali pubblicati in questi ultimi anni:

  • nel 2014, scrivevano l’onorevole del PD Maria Cecilia Guerra e, a titolo personale, Raffaele Tangorra, direttore generale per l’inclusione e per l’inclusione e le politiche sociali presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che: “in un paese ad alta percentuale di economia sommersa come il nostro, in cui è nota la difficoltà a operare la prova dei mezzi, il sostanziale insuccesso di precedenti esperienze in materia è stato anche dovuto all’incapacità di controllare il reale possesso dei requisiti da parte dei beneficiari. Ciò ha creato, infatti, da un lato problemi di sostenibilità economica, dall’altro tensioni sociali nelle situazioni in cui il beneficio veniva riconosciuto a chi è più disponibile a dichiarare il falso che a chi si trova realmente in situazione di bisogno. La sperimentazione, lungi dall’essere un fallimento, ci aiuta a evitare il ripetersi di quell’insuccesso [lavoce.info: 8/4/2014];
  • qualche mese dopo l’articolo summenzionato vengono pubblicati i primi dati sulla sperimentazione del sostegno per l’inclusione attiva (SIA) nei grandi comuni. Si tratta di poche slides (sei) relative alla percentuale di nuclei familiari beneficiari “potenziali” ed “eleggibili” (i primi calcolati sulla base delle risorse disponibili, i secondi rispetto all’ISEE), alla percentuale di domande respinte per mancanza di requisiti, al numero di beneficiari che hanno ottenuto il beneficio economico [Quaderni della ricerca sociale, flash 29: 1/9/2014].
  • a due anni di distanza dalla pubblicazione dei primi dati sulla sperimentazione, la Caritas, nel suo rapporto dal titolo “Non fermiamo la riforma”, osserva come: “purtroppo la mancanza di un report istituzionale frutto del monitoraggio della misura (siamo fermi al settembre 2014, ad oggi primo e unico documento di monitoraggio ufficiale, evidentemente di natura intermedia) non consente di disporre di dati definitivi sugli effetti sui beneficiari e dell’analisi dell’intera sperimentazione da parte del Ministero” [Caritas Italiana 2016: p. 7].
  • l’anno successivo, nel 2017, escono i primi dati ufficiali di fonte INPS. L’Istituto pubblica un primo resoconto della distribuzione regionale del numero delle domande (accolte, respinte, sospese), in occasione dell’audizione del 17 gennaio in commissione lavoro del Senato. Qualche mese dopo, in luglio, dedica, in appendice del XVI rapporto annuale dell’INPS, due tavole sul SIA relative alla distribuzione regionale dei beneficiati e dell’importo erogato [INPS 2016: 267-8].

Allo stato attuale, a meno di sviste clamorose di chi scrive, dati sull’esito della valutazione delle sperimentazioni non ce ne sono o al momento non sono accessibili. Soprattutto non si ha traccia, evidente e pubblica, di una risposta ai quesiti di valutazione che compaiono all’interno del Programma Operativo Nazionale Inclusione 2014-2020 [in particolare, p. 21-28]. La difficoltà di reperire dati puntuali non riguarda la sola valutazione, ma anche il semplice monitoraggio: pochi e generici sono gli indicatori di monitoraggio, aggregati ad un livello ecologico troppo ampio per accennare a qualche riflessione legata al territorio.

In questa prospettiva bisogna segnalare che l’Alleanza contro la povertà ha elaborato e realizzato, nel corso del 2017, un proprio piano di valutazione (non contro fattuale) le cui risposte ai quesiti valutativi sono state pubblicate ad ottobre in un report dal titolo “Rapporto di valutazione: dal SIA al REI”. Nel rapporto si evidenziano gli elementi di frizione della misura, in parte richiamati in questo articolo, evidenziando nelle conclusioni come e perché alcune realtà possono funzionare meglio.

Al di là delle questioni di metodo, il rapporto ha avuto il pregio di affrontare il problema in modo diretto e trasparente, attraverso modalità di lavoro partecipate e condivise. L’insegnamento che si può trarre da ciò è che con la condivisione – di conoscenze, professionali, strumenti e dati – e la fattiva collaborazione tra i diversi stakeholder si giunga più facilmente ad un conoscenza profonda dell’oggetto da valutare e, quindi, a migliorarne gli esiti futuri.

Giunti alla fine torniamo al punto di partenza: al gioco del bubu-settete. Per il bene del neonato REI c’è bisogno di uno scambio di dati e di informazioni tra i diversi soggetti interessati. Le istituzioni, nel percorso di avvicinamento al REI, hanno evidenziato un atteggiamento ambivalente: da un lato di massima apertura e collaborazione e dall’altro di chiusura per ciò che riguarda lo scambio di informazioni. In sostanza sono rimaste con il viso coperto. Di sicuro dietro questo atteggiamento ci sono problemi anche di carattere strutturale a cui si sta cercando di rimediare (si pensi alle attività di interscambio tra i sistemi informativi previsti nel programma dell’agenda digitale), ma al di là dei problemi tecnici il problema della povertà chiama in causa innanzitutto un modo nuovo modo di porsi in relazione: trasparente e di condivisione tra le parti. Un atteggiamento di maggiore apertura che consenta una conoscenza profonda del problema per ricercare soluzioni efficaci. Un atteggiamento che ci sollecita a togliere le mani dal volto quando si esclama “settete!”.

L’auspicio è che con il REI si possa realizzare finalmente uno scambio di informazioni e di dati in modo da valutare con efficacia l’impatto di questa misura.

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