“Non nutriamo alcun dubbio sul fatto che il reddito di base incondizionato sia lo strumento più efficace per creare le condizioni istituzionali per una società libera e un’economia sana, unitamente ad altre riforme che esulano dal tema di questo libro”

Gli autori, stimati professori all’Università Cattolica di Lovanio, il primo di Etica economica e il secondo di Scienza politica, sono consapevoli che la proposta che fanno è radicale, ma ragionevole e questo per molte ragioni plausibili.

La prima cosa da dire è che questa proposta è prima di tutto politica, incide su un fatto economico. Di conseguenza il problema vero non è se ci sono i soldi per attuarla, e vedremo che è possibile trovarli, ma se vogliamo perseguire l’obiettivo politico che ci propongono i due autori: il mutamento di rapporti di potere e di libertà tra i ricchi e i poveri a vantaggio di questi ultimi.

Questo è il nocciolo della questione e di questo vorremmo rendere partecipi i lettori di questa recensione. Se volete potete leggere l’epilogo del libro come invito alla lettura, prima di questa recensione, per farvi un’idea della serietà della proposta.

Gli autori avevano scritto un piccolo libretto sullo stesso tema nel 2005 dopo aver fondato nel 1986 a Lovanio il BIEN, una rete europea, diventata mondiale nel 2004, per approfondire la fattibilità di questa proposta politica.

Dunque la proposta non è l’idea di due studiosi fatta a tavolino nel loro studio, ma coinvolge un mondo sempre più vasto che sta lavorando per rendere attuabile questa scelta politica.

La proposta è semplice: dare a ciascun cittadino di un determinato paese una somma in denaro pari al 25% (ma questa percentuale non è detto sia quella ottimale) del reddito procapite del paese, per tutta la vita, non tassabile, senza alcuna contropartita in cambio, per esempio partecipare alla ricerca e/o all’accettazione di proposte di lavoro e/o di formazione. Reddito di base che si può cominciare a introdurre parzialmente, come vedremo meglio alla fine.

Questa politica sociale favorisce la libertà, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione, se scegliere i lavori meno tutelati e contrattare da una posizione più di forza lo stipendio e le condizioni lavorative per lavori più dignitosi. Inoltre permetterebbe a tutti, di poter decidere come meglio spendere la propria vita lavorando, formandosi, dedicarsi alla cura di familiari bisognosi, dedicarsi ad attività per la comunità, alternando periodi di attività o no a seconda delle diverse situazioni della vita che si presentano nelle varie età.

E’ una politica che scardina alcuni assunti impliciti e alcuni valori di come siamo abituati a pensare le nostre vite, per esempio la cultura del lavoro, come partecipazione alla vita e al bene comune; perché dare soldi anche a chi li ha già, i ricchi; come fare per far sì che la gente se ne approfitti e viva alle spalle degli altri.

Gli autori hanno svolto una indagine accurata e cercato di rispondere a queste e altre obiezioni in modo serio e competente.

Il primo capitolo è dedicato alla presentazione della proposta del reddito di base in denaro, incondizionato, personale e stabile nel tempo come, appunto, base del reddito personale. E’ un diritto che si acquisisce alla nascita e può variare nel tempo, i minori per esempio potrebbero avere un importo inferiore a quello degli adulti, o essere legato all’andamento economico del paese. I pensionati avrebbero tutti un reddito di base, invece della pensione sociale. I disabili, per esempio, potrebbero avere un di più a causa delle necessità della loro disabilità, ecc.

Il reddito di base, lo dice la parola stessa «base», sarebbe il fondamento di ogni altro reddito da lavoro e/o da rendita che una persona può aggiungere, se lo vuole a quello di base.

«Non nutriamo alcun dubbio sul fatto che il reddito di base incondizionato sia lo strumento più efficace per creare le condizioni istituzionali per una società libera e un’economia sana, unitamente ad altre riforme che esulano dal tema di questo libro» (p. 54)

Il secondo capitolo illustra i “cugini” del reddito di base: dotazione di base, imposta negativa sul reddito, credito di imposta sui redditi da lavoro, integrazione salariale, impiego garantito, riduzione dell’orario di lavoro. Gli autori mostrano vantaggi e svantaggi politici, economici e sociali nei confronti del reddito di base, mostrando come questo raggiunga meglio l’obiettivo di una società libera e un’economia sana.

Il terzo capitolo è di carattere storico, su come sono nate e si sono sviluppate l’assistenza pubblica e la previdenza sociale, le motivazioni soprattutto di tipo religioso in società allora fortemente religiose, a partire dal 1500 fino ai nostri giorni, quando ormai le consideriamo pilastri necessari alla convivenza civile in un paese moderno. Le motivazioni religiose riprendevano i padri della Chiesa che mostravano come i beni che ciascuno possedesse non fossero sua proprietà inalienabile, ma fossero da redistribuire ai poveri, in quanto beni comuni destinati a tutti, nel disegno di Dio sulla creazione.

Il quarto capitolo mostra come l’idea di un reddito di base si sia fatta avanti nella storia, da idea utopica nel 1700 a oggi, di come Gli Stati Uniti lo abbiano sfiorato a livello federale negli anni sessanta del secolo scorso. L’unica realizzazione è la redistribuzione di un fondo sovrano alimentato dalla rendita derivante dalla vendita di petrolio nello stato dell’Alaska, importo pagato annualmente in base al rendimento del prezzo del petrolio nei 5 anni precedenti.

Il quinto capitolo affronta la spinosa questione: perché senza condizioni? Gli autori analizzano varie tendenze “ideologiche” e portano varie argomentazioni, sia etiche che di giustizia sociale, ma quella che sembra più convincente è la prassi che si è riscontrata in alcuni esperimenti parziali che sono stati realizzati: «gli esperimenti effettuati suggeriscono che, anche quando la libertà dall’obbligo di lavorare provoca un calo dell’offerta di lavoro, ciò non si traduce in un aumento del tempo trascorso nell’ozio, ma in un incremento del tempo dedicato ad attività produttive  in senso più ampio, come l’istruzione, la cura dei bambini e l’impegno nella comunità» (p. 168).

Gli autori si basano su «una concezione egualitaria della giustizia distributiva la quale considera la libertà non tanto come vincolo a ciò che la giustizia impone, ma come il bene nella cui equa distribuzione consiste propriamente la giustizia. Ciò richiede che la libertà sia interpretata non come “libertà formale”, ce attiene al mero piano giuridico, ma come “libertà reale” che si traduce nell’essere effettivamente in grado di fare qualunque cosa si desideri» (p. 172).

Aggiungo personalmente che il trattare il desiderio di realizzazione personale con libertà è questione che spaventa i “benpensanti” in quanto ritengono che gli altri, e i poveri in particolare, non abbaiano sufficiente sapienza di vita per autodeterminarsi. La libertà altrui, quando la propria è garantita, è sempre pericolosa nella testa di chi ne gode già i frutti e non deve sottostare a molteplici condizionamenti negativi: bassa istruzione, salute scadente, poche opportunità, basso reddito, ecc.

Il sesto capitolo analizza la fattibilità economica del reddito di base. Gli autori presentano le varie realizzazioni parziali paragonabili a un reddito di base, limitate nel tempo, non incondizionate, a volte basate sul trasferimento di beni e non di denaro, ecc.

Dove trovare i soldi? La proposta è ampia in quanto si possono tassare i redditi di lavoro, il capitale nelle sue varie forme, i beni naturali e comuni, i consumi. Le realizzazioni parziali sono state molto diverse e a volte fantasiose, per esempio una tribù indiana distribuisce un reddito in denaro proveniente dai guadagni di un casinò. La proposta dei due studiosi è quella di una introduzione parziale e progressiva, come è stato fatto per la previdenza e l’assistenza sociale. Non si è partiti con il tutto e subito, ma si è progressivamente aumentata la platea delle persone e del denaro impiegato per ampliare sempre più i servizi previdenziali e assistenziali, il welfare state.

Il settimo capitolo va al cuore del problema, che non sono i soldi, ma la motivazione politica a sostenere il reddito di base. Gli autori compiono una disamina precisa e articolata di come società civile, partiti politici e movimenti ideologici di tutti i colori hanno sostenuto, snobbato, o contrastato la proposta di un reddito di base. Vale la pena leggerlo per trovare anche posizioni sorprendenti e contrarie rispetto a un generico senso comune, per esempio i sindacati sono stati generalmente contrari o indifferenti, ma non solo loro.

Gli autori ritengono fondamentale la questione di quale alleanza politico-sociale possa e voglia sostenere questa proposta che è prima di tutto politica. La fattibilità economica viene di conseguenza, come sempre, se l’obiettivo è chiaro e condiviso, come è successo per molte innovazioni sociali avvenute nella storia.

L’ottavo capitolo affronta la questione non banale se si può introdurre un reddito di base a un livello superiore a quello di un determinato paese, in particolare nell’Unione Europea, oppure addirittura a livello globale. Gli autori ritengono che si debbano percorre diverse strade simultaneamente: ogni piccolo passo è ben accetto, ogni opportunità per un reddito di base sovranazionale deve essere perseguita, a partire dall’UE, riformare i sistemi di welfare nazionali in modo che possano incorporare almeno un modesto reddito di base incondizionato. «Questi tre livelli non sono concorrenti, ma complementari. Più solida è la base erogata su scala globale o regionale, inferiore sarà la pressione sulla redistribuzione nazionale e più sostenibile sarà un reddito di base nazionale» (p. 397).

Mi è di obbligo ringraziare Philppe van Parijs e Yannik Vanderborght per il prezioso lavoro analitico che hanno profuso per rendere praticabile questa originale innovativa politica che può aumentare la libertà delle persone, in particolare dei poveri e delle donne, da lavori non dignitosi, dallo sfruttamento, dalla povertà. Grazie al loro coraggio politico e alla loro passione civile.

In Italia siamo un po’ provinciali e indietro rispetto a tutto questo dibattito. Si può fare qualcosa per migliorare?

Di seguito, come invito alla lettura, l’epilogo del libro che riassume la proposta politica di un reddito di base in denaro, incondizionato, personale.

 

Philppe van Parijs e Yannik Vanderborght, Reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, Bologna 2017.

 

Citazioni

Epilogo

“In questo libro abbiamo presentato l’introduzione di un reddito in denaro, pagato regolarmente su base individuale, senza verifiche della condizione economica o della disponibilità al lavoro, quale ingrediente essenziale dell’assetto istituzionale di una società libera, giusta e sostenibile. Abbiamo spiegato perché il reddito di base sia da preferire a proposte correlate come la dotazione di base, l’imposta negativa sul reddito o la riduzione obbligatoria della settimana lavorativa. Abbiamo delineato la storia degli altri due modelli di protezione sociale – l’assistenza e la previdenza sociale — ed esplorato, su questo sfondo, il progressivo emergere dell’idea di reddito di base, ben prima che in tempi recenti essa balzasse repentinamente agli onori delle cronache.

Abbiamo preso in considerazione l’obiezione etica all’idea che coloro che scelgono di non lavorare abbiano diritto al reddito; abbiamo illustrato la concezione liberal-egualitaria di giustizia che fornisce una risposta di principio a questa obiezione; abbiamo spiegato perché altre concezioni di giustizia conducono a conclusioni diverse; abbiamo esplorato in che modo approcci filosofici concorrenti possano approdare alla stessa conclusione, pur fornendone giustificazioni diverse. Abbiamo esaminato la questione della sostenibilità economica di un consistente reddito di base e spiegato perché riteniamo che il modo migliore di procedere nel contesto di sistemi di welfare state sviluppati consista in un reddito di base parziale finanziato da un’imposta sul reddito e integrato dall’assistenza pubblica e dalla previdenza sociale. Abbiamo passato in rassegna gli atteggiamenti nei confronti del reddito di base riscontrabili nelle articolazioni della società civile e nelle famiglie politiche, indicando quali fattori hanno spinto alcuni in direzione di questa proposta e altri in direzione contraria e suggerendo come poter superare indifferenza e ostilità. Infine abbiamo riconosciuto che la globalizzazione, pur contribuendo a rendere più urgente l’esigenza di un reddito di base, rende più complessa la sua realizzazione e abbiamo esplorato alcune strategie per far fronte a questa sfida senza precedenti.

Ciò che abbiamo sostenuto è utopistico? Certamente lo è nella misura in cui ciò non esiste e non è mai esistito in alcun luogo in modo compiuto, il che fornisce alle persone una buona ragione per sospettare che sia impossibile da realizzare. È utopistico anche nel senso che si tratta della visione di un mondo migliore. Se si ripercorre la storia degli assetti istituzionali delle nostre società, ci si rende conto che molte delle conquiste che oggi diamo per scontate erano considerate utopistiche, in questa doppia accezione, sino a non molto tempo fa. Esse comprendono l’abolizione della schiavitù, la tassazione del reddito personale, il suffragio universale, l’istruzione universale, l’esistenza dell’Unione Europea. Vi è una caratteristica che l’utopia del reddito di base possiede in misura maggiore di altre: che la sua introduzione faciliterebbe molti altri cambiamenti di tipo utopico. Promuoverebbe la realizzazione di tante idee individuali e collettive, locali e globali, che sempre più spesso rimangono schiacciate sotto la pressione della competitività imposta dal mercato.

Chi dubiti del potere del pensiero utopico farebbe bene a prestare attenzione alle parole di uno dei principali padri intellettuali del «neoliberismo», oggi dichiarato trionfante dai suoi sostenitori e ancor più dai suoi avversari. Nel 1949, ben prima che si potesse supporre che tale trionfo fosse all’orizzonte, Friedrich Hayek scrisse: «La lezione principale che il vero liberale deve imparare dal successo dei socialisti è che è stato il coraggio di essere utopisti a far guadagnare loro l’appoggio degli intellettuali e, quindi, un’influenza sull’opinione pubblica che ogni giorno sta rendendo possibile ciò che solo poco tempo fa sembrava totalmente remoto». La lezione che Hayek ha appreso dai socialisti, dobbiamo a nostra volta apprenderla da lui: «Dobbiamo fare della costruzione di una società libera una volta di più un’avventura intellettuale, un atto di coraggio. Ciò che manca è un’Utopia liberale». È vero, signor Hayek, ma l’utopia di una società libera di cui c’è bisogno oggi è profondamente diversa dalla sua: dev’essere un’utopia di vera libertà per tutti che ci emancipi dalla dittatura del mercato e ci permetta di mettere in salvo il nostro pianeta.

Per dare forma a quest’utopia di una società davvero libera non basta — va da sé — introdurre un reddito di base incondizionato. Sono altrettanto importanti l’assistenza sanitaria e l’istruzione universale, l’apprendimento permanente, l’accesso universale a informazioni di qualità su internet, un ambiente sano e una pianificazione urbanistica intelligente. Questi fattori sono determinanti per potenziare ciò che noi possiamo fare per parte nostra, ma soprattutto — dal momento che ciò che possiamo fare individualmente è molto poco — per espandere ciò che ciascuno di noi può fare in collaborazione con gli altri, sia vicini sia lontani, anche attraverso una partecipazione democratica efficace. Ma il solido fondamento che il reddito di base fornisce agli individui è la chiave.

Come possiamo realizzare quest’utopia? Probabilmente attraverso una serie di mosse che introducono cambiamenti più spesso dalla porta sul retro che dall’ingresso principale. È inevitabile che il pensiero machiavellico giochi un ruolo significativo, in due sensi. Da una parte dobbiamo riflettere, come fa Machiavelli nei Discorsi, sul modo in cui il disegno delle istituzioni politiche influenzi la stessa attuabilità delle nostre proposte. Dall’altra dobbiamo riflettere, come si presume facciano i seguaci di Machiavelli, sul modo migliore per sfruttare le opportunità politiche. Invece di riporre le nostre speranze in un avvenimento spettacolare di portata sconvolgente, dovremmo approfittare sapientemente di migliaia di occasioni per ottenere miglioramenti nel breve periodo in vista di un vero progresso sul lungo periodo. Andremo incontro a delusioni e regressi, com’è accaduto nelle battaglie per il suffragio universale e l’abolizione della schiavitù. Le utopie non si realizzano da un giorno all’altro, ma ci sostengono e ci dispongono ad affrontare le fatiche e gli sforzi quotidiani. Un giorno ci chiederemo perché è servito tanto tempo per costruire sotto i nostri piedi una base solida sulla quale tutti possiamo reggerci. Allora, ciò che si era soliti considerare come la fantasia di un manipolo di pazzi sarà ormai una conquista assodata e irreversibile”.

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