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La storia del debito pubblico italiano, dagli anni sessanta a oggi, è complicata. Però, questo libro, ha il grande merito di ragionare sul come uscire da questa situazione proponedo un’analisi dettagliata delle possibili soluzioni oggi individuate

Carlo Cottarelli, ai più, non ha bisogno di presentazioni. Lavora al Fondo Monetario internazionale dal 1988 dopo una laurea a Siena e alla London School of Economics, quando ancora non si andava all’estero come oggi per studiare. Ha lavorato in Banca d’Italia e poi all’Eni, ed è stato commissario straordinario per la revisione di spesa da ottobre 2013 a novembre 2014, chiamato da Renzi, per cercare di ridurre e razionalizzare la spesa pubblica. Questo è l’incarico che gli ha dato notorietà in Italia.

In questo libro di marzo 2016 l’autore, con linguaggio chiaro e semplice, che nasce da una grande competenza, spiega perché all’Italia convenga ridurre il debito e la strategia migliore per riuscirci.
Nei primi capitoli illustra cosa sia il debito di uno stato, come è composto, da chi è detenuto, come si forma, riferendo queste nozioni base al caso italiano. Qui cita la ricostruzione storica del rapporto debito/PIL dal 1981 al 2009 fatta dalla Banca d’Italia, e per un ulteriore approfondimento su come si sono spesi i soldi si può vedere il seguente documento della Ragioneria Generale dello Stato, che viene aggiornato di anno in anno.

Con una breve memoria storica si possono così individuare i governi virtuosi e quelli meno, così da rendersi conto di chi sono “i meriti e le colpe” del perché oggi abbiamo un debito al 130% circa del PIL.

Cottarelli, però, non si sofferma tanto sul come siamo arrivati a questo punto, quanto su come possiamo uscirne, facendo valere la sua esperienza di lavoro al Fondo Monetario Internazionale.

Egli esamina in maniera dettagliata sei soluzioni proposte da varie parti, italiane e internazionali, evidenziando le ricadute negative e ritenendole inadeguate all’Italia.
1) Uscire dall’euro. Questo per tornare ad essere padroni della propria moneta e poter gestire in maniera autonoma l’emissione e la quantità di moneta, in modo da poterla svalutare e ridurre il debito. La disfunzione è proprio il livello d’inflazione che erode la capacità di spesa del paese
2) Non pagare il debito. Sarebbe una tassa sui detentori dei Buoni del Tesoro, per 2/3 italiani, dunque una diminuzione del reddito (derivato dagli interessi), una manovra di forte austerità. Essa è stata fatta quasi sempre solo da paesi emergenti e non in paesi avanzati economicamente. Inoltre produce sfiducia anche per un futuro lungo e quindi un tasso d’interesse alto sui futuri Buoni del Tesoro per molti anni
3) Mutualizzare il debito. Soluzione non molto diversa dalla precedente, soprattutto nelle sue conseguenze a lungo termine.
4) Vendere il patrimonio dello Stato. Facendo dei calcoli, Cottarelli mostra che più di tanto non si potrebbe ricavare da questa strada, in quanto la liquidità del patrimonio è scarsa e anche aumentarne la redditività non si è dimostrato facile nel passato. Strada che tuttavia, in qualche modo, andrebbe percorsa.
5) Austerità. Ridurre le spese dello Stato o aumentare le tasse per produrre un avanzo primario robusto. Qui il problema maggiore sono le ricadute sulla capacità di spesa delle imprese e dei cittadini, come è accaduto in Grecia e in parte anche in Italia.
6) Una maggiore crescita economica. Qui si parla delle riforme strutturali del mercato del lavoro, della Pubblica amministrazione, della giustizia, della concorrenza. Tuttavia l’impatto di queste riforme non chiaramente quantificabile. Inoltre si sta andando verso una situazione di relativamente scarsa crescita economica mondiale, dovuta in parte anche alle maggiori disuguaglianza tra ricchi e poveri, come ha mostra Piketty nel suo Il capitale nel XXI secolo.

Sono inoltre interessanti alcuni capitoli sparsi su Debito pubblico e morale, La crisi greca, Le regole fiscali dell’Europa e della Costituzione italiana, che illumina con intelligente sapienza alcune questioni di fondo che rendono ancora più chiaro il quadro economico-finanziario in cui viviamo.

Che fare allora? Cottarelli propone come strada maestra la combinazione di una moderata austerità fiscale con riforme che innalzino il tasso di crescita del PIL.

E’ una strada che richiede coerenza e impegno per molti anni, circa 20 anni per raggiungere un livello del rapporto debito/PIL che ci metterebbe al riparo da eventuali, e non certo impossibili, shock finanziari internazionali. Cottarelli è convinto che non si tratterebbe di interventi lacrime e sangue, ma sicuramente di scelte e comportamenti diversi fatti anche negli ultimi anni, che hanno fatto risalire il rapporto debito/PIL dal 100% del 2008-2009 al livello attuale.

E’ una buona proposta, fatta da uno che ha anche visto da vicino come lo Stato spende i soldi per i servizi ai cittadini, sperando che non solo i politici, ma soprattutto anche i cittadini ne sappiano apprezzare i vantaggi attuali per loro e quelli futuri per i pochi figli che stiamo facendo nascere.

In questa disamina precisa e rassicurante non si fanno riferimenti significativi alla evasione fiscale, alla corruzione e alle varie mafie, aspetti non indifferenti nel paese più corrotto dell’Occidente avanzato economicamente. Forse che dal contrasto a questi fenomeni non ci può essere un ulteriore significativo vantaggio per uscire dalla situazione attuale?

Carlo Cottarelli, Il Macigno. Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene, Feltrinelli, Milano 2016.

Citazioni

“La storia del debito pubblico italiano dagli anni sessanta a oggi è complicata, ma cerco di riassumerla in modo semplice suddividendo questo mezzo secolo in cinque periodi.
Primo periodo (l’origine del problema): nella metà degli anni sessanta la spesa primaria comincia ad accelerare, soprattutto nel comparto sanità e pensioni: è una tendenza in atto nella maggior parte dei paesi avanzati, che riflette l’invecchiamento della popolazione e l’ampliamento del sistema di welfare […]
Secondo periodo (l’accelerazione del debito): l’inflazione non piace a nessuno e all’inizio degli anni ottanta governo e Banca d’Italia decidono il cosiddetto “divorzio” […]
Terzo periodo (la correzione): all’inizio degli anni novanta, dopo la crisi economica che colpisce il paese nel 1992, inizia la riduzione del deficit primario: si tagliano le spese e, soprattutto, si aumentano le tasse […]
Quarto periodo (l’occasione perduta): a causa dell’entrata dell’Italia nell’area dell’euro a fine anni novanta, i tassi di interesse sul debito pubblico cominciano a calare […] il surplus primario comincia a calare […]
Quinto periodo (la crisi): la crisi mondiale del 2008-2009 colpisce l’Italia causando la caduta del Pil e delle entrate tributarie e un amento del deficit. L’alto livello di debito ci impedisce di sostenere l’economia , attraverso aumenti di spesa o tagli delle tasse, tanto fatto da altri paesi (come gli Stati Uniti e il Regno Unito)” (pp. 23-25)

“Abbiamo considerato diverse possibili scorciatoie alla riduzione del debito.
Ripudiare il debito pubblico sarebbe molto costoso, soprattutto perché due terzi del debito sono detenuti da italiani. Ripudiare il debito vorrebbe dire tassare chi detiene la propria ricchezza in titoli di stato. Avrebbe quindi effetti recessivi. Inoltre ne soffrirebbe la reputazione dello stato italiano come emittente. L’Italia non ha mai ripudiato il proprio debito nei suoi centocinquantacinque anni di storia unitaria.
Anche uscire dall’euro non servirebbe a molto: la presenza di una banca centrale che possa stampare moneta per ripagare il debito potrebbe ridurre il rischio di una crisi sul mercato dei titoli di stato, ma non eviterebbe la necessità di correggere i conti pubblici, a ameno di essere disposti a un’inflazione elevatissima (e anche l’inflazione è una tassa). Quindi, a meno di credere che l’Italia non possa crescere finché resta nell’area euro ( e non credo sia questo il caso), uscire dalla moneta unica non aiuta a risolvere il problema del debito pubblico.
Mettere in comune il debito pubblico con i nostri partner europei (anche attraverso forme di garanzie congiunte volte ad abbassare il costo del debito italiano e ridurre il rischio di una crisi) sarebbe bello, ma richiede un grado di altruismo che non ci possiamo aspettare. Non illudiamoci.
Vendere o valorizzare le proprietà delle pubbliche amministrazioni può essere utile e può aiutare a ridurre il peso del debito pubblico, ma non è sufficiente, di per sé, a portare il debito a un livello più appropriato” (pp. 161-162)

“Quel che è richiesto è di mantenere la spesa primaria costante in termini reali tra il 2016 e il 2019 (dopodiché potrebbe riprendere a crescere in linea con il PIL). Quindi non sarebbe necessario tagliare i servizi forniti ai cittadini. Basterebbe non spendere le maggiori entrate che derivano dal maggiore crescita prevista per i prossimi anni. Questo dovrebbe consentire di pareggiare il bilancio delle pubbliche amministrazioni entro il 2019. Si tratterebbe poi di mantenerlo in pareggio, ma solo al netto degli effetti del ciclo economico: recessioni porterebbero il bilancio in deficit, ma dovrebbero essere compensate dai surplus nelle fasi alte del ciclo economico. Se così si facesse, il debito pubblico si ridurrebbe a un passo regolare, scendendo sotto il 90% del PIL nel 2029, pienamente in linea con quanto richiesto dalla regola europea di discesa del debito. Questa politica non richiede sforzi tali da penalizzare la crescita potenziale dell’economia. E rispetto ad altri paesi che pure stanno cercando di ridurre il proprio debito pubblico saremmo avvantaggiati dalle riforme delle pensioni già introdotte negli ultimi due decenni, sempre che non le smontiamo. Certo il debito resterebbe elevato per parecchi anni. Una discesa più rapida potrebbe essere ottenuta con dismissioni del patrimonio pubblico. In ogni caso, se il debito fosse in chiara discesa, i rischi e i costi connessi a ogni livello del debito sarebbero molto attenuati” (pp. 163-164).

“Insomma, per farcela dobbiamo comportarci in modo diverso dal passato […] Certo ci vorranno tempo e pazienza, ma occorre crederci se vogliamo evitare di restare per sempre schiavi del debito e dei mercati finanziari. (p. 165)

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