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Gli enti locali devono tornare ad occuparsi dell’agricoltura, riscoprendo la sua dimensione relazionale e comunitaria. Un’agricoltura che, negli ultimi decenni, è stata investita da profonde trasformazioni tanto da acquisire una nuova centralità per lo sviluppo locale

Soltanto una metà delle Regioni ha trasferito parte delle funzioni amministrative in materia di agricoltura ai Comuni. E tuttavia, nonostante tale limite, è bene che gli enti locali si occupino di questo tema perché negli ultimi decenni l’agricoltura è stata investita da così profonde trasformazioni da acquisire una nuova e più marcata centralità per lo sviluppo locale. Nei Paesi industrializzati, all’esodo rurale è subentrato l’esodo urbano e tale inversione ha dato vita ad un particolare fenomeno, denominato rurbanizzazione, che ha visto il territorio evolvere in una sorta di continuum urbano-rurale e l’agricoltura diventare asse portante di un terziario civile innovativo capace di ricostituire le comunità-territorio, ridare un senso ai luoghi e reinventare uno spirito di appartenenza che si riconosce nell’incontro e nell’alterità.

Si va, in altre parole, ricomponendo, in forme nuove e con l’apporto della rivoluzione tecnologica in atto, la frattura antropologica che si determinò a metà del secolo scorso e che provocò la crisi ecologica che tuttora viviamo. Frattura che in Italia ebbe caratteristiche sue proprie in un contesto che vedeva le politiche pubbliche concentrarsi nel sostegno di un’industrializzazione forzata dall’alto e, nello stesso tempo, abbandonare l’approccio dello studio di comunità per gli interventi di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo. Inoltre, la gran parte dei tecnici che uscivano dalle scuole e dalle facoltà di agraria veniva assunta non più dalla pubblica amministrazione ma dalle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibita alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventarono destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche, dotate di competenze tecnico-scientifiche adeguate, capaci di fare da filtro nel rapporto tra imprese agricole e industrie produttrici di mezzi tecnici. Il venir meno di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali costituì la causa principale della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui fu lasciato l’agricoltore. Solo la reinvenzione di un’agricoltura di relazione e di comunità oggi può rimarginare quella frattura culturale e segnare, di nuovo, un salto di civiltà.

Ai Comuni spetta la tutela attiva dei terreni agricoli, la cui “agrarietà” non è più riconducibile solo all’attività di coltivazione ma anche alla capacità di fornire servizi all’ambiente e alla comunità. Il digitale, la robotica, le biotecnologie e i flussi derivanti dalla globalizzazione permettono alle comunità-territorio (che si vanno ricostituendo sia negli insediamenti rurali che negli agglomerati urbani e metropolitani) di superare la dicotomia centro/periferia, assorbendola in una dimensione policentrica, e di considerare ogni superficie uno spazio specializzato e, al tempo stesso, polifunzionale. Si tratta, dunque, di ricercare il connotato “agricolo” delle forme di terziario civile innovativo che si vanno sperimentando e diffondendo, non tanto nella coltivazione e nell’allevamento, bensì nella qualità delle partnership e delle collaborazioni, nella reinvenzione della cultura agricola e rurale locale, nel rilancio in forme moderne delle pratiche solidali e dei beni relazionali propri dei contesti rurali tradizionali, insomma nella rivitalizzazione della funzione generatrice di comunità propria dell’agricoltura che nasce 10 mila anni fa, innanzitutto, come agricoltura di servizi (al servizio appunto delle prime comunità sedentarie) prima ancora di connotarsi come attività produttiva.

Le amministrazioni comunali sono le uniche in grado di affrontare un fenomeno molto esteso nel nostro Paese: la presenza di decine e decine di migliaia di piccoli appezzamenti di terra destinati perlopiù all’autoconsumo familiare, come eredità di sistemi territoriali storici (mezzadrile e latifondistico-colonico). Essi potrebbero rivitalizzarsi qualora si riuscisse a reinventare, in forme moderne, quella tradizione. In che modo? Imperniando un nuovo sistema a rete su tre elementi: i fazzoletti di terra, le imprese agricole di servizi alle persone e alle popolazioni (masserie e fattorie sociali) e i centri abitati come luoghi dove i vari soggetti della nuova ruralità possano interagire e rapportarsi con l’economia mondo.

Questi piccoli appezzamenti vedono coinvolto il 41% della popolazione italiana. Si tratta di persone impegnate in altre attività – da cui ricavano il proprio reddito – oppure sono pensionati che hanno svolto precedentemente lavori in settori diversi dall’agricoltura. La superficie interessata da questa forma di utilizzo dei terreni agricoli è ancora oggi una parte consistente del paesaggio agrario del nostro Paese. La cultura economica e le istituzioni solo negli ultimi tempi stanno prestando attenzione all’apporto di tali attività alla composizione dei consumi alimentari familiari, al consumo di mezzi tecnici e di servizi professionali necessari per svolgerle, alla promozione dello spirito civico e di comunità, alla salvaguardia del territorio e al benessere psico-fisico delle persone.

Le attività su piccoli appezzamenti, svolte da coloro che comprano beni e servizi dalle imprese del territorio per fare agricoltura di autoconsumo, sono presenti non solo nei piccoli centri, dove i protagonisti sono prevalentemente i proprietari dei minuscoli fondi coltivati, ma anche nelle medie e grandi città, dove i protagonisti sono i fruitori di un servizio su fondi organizzati e assegnati perlopiù da amministrazioni pubbliche e, negli ultimi anni, anche dalle imprese agricole e dalle cooperative sociali che operano nell’ambito dell’agricoltura sociale.

Centrale è, infine, il ruolo che le amministrazioni locali possono giocare nel rivitalizzare le proprietà collettive. Si tratta di un patrimonio fondiario che non appartiene né allo Stato, né alle Regioni, né agli enti locali anche se talvolta è imputato catastalmente ai Comuni. Sono beni di proprietà delle collettività locali. Le proprietà collettive sono beni e diritti inalienabili, indivisibili, inusucapibili, imprescrittibili. Il loro uso non può essere per alcuna ragione modificato. Sono diritti reali di cui i residenti godono da tempi immemorabili e continueranno a godere per sempre ma in comune – cioè senza divisione per quote – per ritrarre dalla terra le utilità essenziali per la vita. A seconda dei territori in cui sono presenti, le proprietà collettive vengono variamente denominate: “associazioni degli antichi originari”, “cantoni”, “vicinìe”, “vicinanze”, “consorterie”, “consorzi”, “consortele”, “regole”, “interessenze”, “partecipanze”, “comunaglie”, “comunanze”, “università agrarie”.

Nei territori dell’ex Regno di Napoli, nella Sicilia e nella Sardegna le terre di uso collettivo sono di proprietà comune della generalità dei cittadini del Comune o delle frazioni che separatamente le amministrano e vengono denominate “demani comunali”. Gli enti che gestivano le terre collettive originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane. Non costituivano mai solo comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita.

Nel Centro-Nord il patrimonio collettivo viene normalmente gestito da un ente dotato di personalità giuridica. Nell’Italia meridionale e insulare viene, invece, gestito dai Comuni e si è fatto di tutto per dimenticare la sua origine. Tuttavia, oggi costituisce un’opportunità per formare una nuova società civile da responsabilizzare nella gestione sostenibile di fondamentali beni comuni. Ma occorre restituire la gestione alle collettività ricostituendo enti autonomi e separati dalle amministrazioni comunali. In base alle normative vigenti (nazionali e regionali), tali patrimoni possono essere disgiunti dalla gestione dei Comuni e gestiti dall’A.S.B.U.C.. Promuovendo e formando amministratori di beni comuni che non rispondano a logiche partitiche o proprie della pubblica amministrazione, ma direttamente ai cittadini che li eleggono ogni quattro anni per quella determinata finalità, forse si potrà contribuire a creare una nuova società civile. Bisognerebbe scommetterci per generare benessere, valorizzare risorse naturali e rivitalizzare capitale sociale. (…)

La proposta
Le amministrazioni locali dovrebbero, innanzitutto, riconoscere e valorizzare il fenomeno della nuova ruralità – manifestatosi in Italia e nei Paesi occidentali a partire dagli anni ’70 del Novecento nell’ambito dei processi di ripensamento dei percorsi di modernizzazione delle campagne – come patrimonio umano, storico-ambientale e socio-culturale capace di interagire coi possibili sviluppi delle società locali e di influenzarli. Nel contempo, dovrebbero accompagnare e sostenere le esperienze di agricoltura multi-ideale, in cui motivazioni che vanno oltre il profitto e competenze multi-professionali ( soprattutto da parte di donne e giovani con diploma e laurea) stanno dando vita a reti di fattorie sociali e di orti urbani, a forme inedite di autogestione dei rapporti economici e di relazioni solidali tra produttori agricoli e cittadini, a “condomini di strada” come forme di aggregazione comunitaria di vicinato, a nuovi modelli di welfare produttivo e a distretti di economia civile che sorgono nell’alveo di una sussidiarietà orizzontale e verticale alla ricerca di riconoscimento.

Un’attenzione particolare va riservata alle forme di gestione dei terreni demaniali che non appartengono allo Stato, alle Regioni e ai Comuni ma alle popolazioni e non dovrebbero, quindi, essere privatizzati nemmeno nella forma dell’assegnazione ad associazioni private. Bisognerebbe sperimentare una varietà di istituti giuridici che vanno dall’A.S.B.U.C. (Amministrazione Separata dei Beni di Uso Civico) alle cooperative di comunità e alle fondazioni di partecipazione, per fare in modo che il protagonismo delle comunità-territorio poggi su una platea la più ampia possibile. In tal modo, si potrà transitare dalla proprietà pubblica a quella collettiva, reinventando, in forme moderne, la gloriosa tradizione giuridica delle terre collettive e degli usi civici. In particolare, l’A.S.B.U.C. è un’entità organizzata, distinta dal Comune e appositamente costituita per la gestione separata delle terre collettive e per la loro valorizzazione e fruizione sociale. Il comitato per gestire l’A.S.B.U.C. è composto di cinque membri e dura in carica quattro anni. Esso viene eletto dalla generalità dei cittadini residenti nel Comune dove è situato il bene. Per avviare un’A.S.B.U.C. occorre costituire un comitato promotore (in media sono sufficienti cinque persone) che si faccia carico di interagire con l’amministrazione comunale e coi competenti uffici regionali al fine di trasmettere al Prefetto la richiesta di adozione del decreto per l’indizione delle elezioni comunali.

La nuova ruralità e l’imprenditoria multi-ideale dell’agricoltura, interagendo in modo virtuoso, contribuiscono a dare centralità alla responsabilità e alla partecipazione come categorie sociali capaci di rompere definitivamente il circolo vizioso della cultura della dipendenza e della delega e di realizzare concretamente processi di autonomia ed emancipazione delle realtà locali. È dunque un’opportunità per le amministrazioni locali che dovrebbero acquisire una più spiccata capacità di programmare gli interventi e di promuovere e accompagnare i percorsi progettuali partecipativi “dal basso” in cui integrare obiettivi di sviluppo sostenibile, inclusione sociale, tutela e valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche, rigenerazione urbana, riconversione ecologica, e finalità delle azioni riguardanti la promozione dell’agricoltura sociale e la gestione dei rifiuti per riciclaggio e riuso. Si tratta di formalizzare tali percorsi mediante la metodologia della ricerca-azione, producendo così un’innovazione sociale derivante da un’osmosi orizzontale e circolare tra conoscenza scientifica, saperi esperienziali comunitari e azione politica e amministrativa.

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