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E’ compito degli adulti restituire la certezza del futuro ai nativi precari, così tanto deideologizzati e così tanto abituati al provvisorio da non essere in grado neanche di balbettare il loro “no” allo scippo del futuro..

NEET: ecco una sigla inquietante che si aggira nel pianeta giovani. NEET, ovvero “not in education, employment or training”. Cioè giovani che non studiano, non lavorano e, soprattutto, non fanno nulla per cambiare la loro condizione. In Italia il boom: 1 giovane su 5 tra i 15 ed i 25 anni in Italia è per l’appunto un NEET (dati ESDE 2017). Il 20%! In Europa la media è intorno all’11%.

Questa è una notizia che dovrebbe allarmarci. Ne abbiamo discusso in un recente Tavolo per la Salute Mentale, istituito presso l’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana. Ma che sta succedendo? Cosa inchioda milioni di giovani, quasi quattro milioni!, in una sorta di “stordimento” senza precedenti? Eppure questo non è l’unico dato allarmante.

Il Rapporto IREF 2017 ne individua altri, relativamente al tema lavoro e giovani. Nel rapporto si parla di scoraggiamento occupazionale (perdo il lavoro e non ne cerco un altro!), di nativi precari (cioè di giovani per i quali la precarietà è quasi una dimensione antropologica), di lavoro in deroga (giovani che accettano l’umiliazione di derogare ad ogni diritto sul lavoro, dall’orario alla retribuzione). Nello stesso rapporto si ammette che la crisi del 2008 ha travolto i giovani, tanto che nell’ultimo decennio la disoccupazione giovanile è pressochè raddoppiata.

Qualcuno, prendendo a prestito una frase del filosofo Spinoza, ha definito la nostra epoca come l’epoca delle passioni tristi, cioè dell’incertezza e della mancanza di futuro. Altri hanno definito i nostri giorni come il tempo dell’agonia del reale, del razionale e delle certezze. Altri ancora hanno scelto il tema della fluidità e della liquidità (o meglio della tecnoliquidità) per definire la assoluta instabilità e la mutevolezza esistenziale che caratterizza il nostro tempo. E infine alcuni, parlando della postmodernità, individuano nel dominio dell’estetica, del piacere e dell’emozione forte la cifra del momento attuale.

Papa Francesco, nell’Amoris Laetitia, riassume tutto questo in una definizione assai efficace: la contemporaneità è dominata dalla cultura del provvisorio. Passioni tristi, agonia delle certezze, fluidità, tecnoliquidità, in una parola: dominio del provvisorio. Ecco la prepotenza della postmodernità. E’ questo il contesto in cui dobbiamo collocare la capacità di agire dei nostri giovani, la cosiddetta “agency”, cioè la capacità effettiva, in un determinato contesto sociale con i suoi vincoli, di essere attivi, di essere in un qualche modo efficaci e trasformativi della realtà. Ma punto centrale consiste nel fatto drammatico che è saltato ogni patto generazionale e in definitiva è stato scippato il futuro ai nostri figli. Che senso ha studiare, prepararsi, fare la gavetta, impegnarsi, percorrere strade anche faticose se il contesto generale è dominato dall’incertezza, dalla mancanza di una vera ed adeguata corresponsione tra sacrifici, impegni e futuro? E’ la dura legge del provvisorio: nessuno sa, se al termine di ogni tappa del percorso, il patto, che garantisce all’impegno un corrispettivo, sarà onorato.

Questo tema schiaccia i giovani in un presente senza futuro, un presente pietrificato, che può mutare in modo imprevedibile sulla base di criteri non corrispondenti all’impegno profuso. Il successo è allora legato o a geniali innovazioni, slegate per lo più dai tradizionali percorsi formativi, o a movimenti narcisistici, slegati al merito e determinati dall’apparire. Geni come Mark Zuckerberg (un giovane disadattato sul piano delle competenze sociorelazionali che con faceboock rivoluziona il concetto di amicizia e di socializzazione) o narcisisti che raggiungono il successo attraverso il nulla dei reality o dei social, sul modello tragicomico di Gianluca Vacchi. E per tutti gli altri? Ecco, in questa società impazzita occorrerebbe tornare a restituire il futuro a chi si impegna. Non a caso la terza onda della terapia cognitiva ha due pilastri: accettazione e impegno.

Si chiama ACT, un modello di psicoterapia che, oltre a ripristinare abilità relative alla consapevolezza di sé, lega il benessere all’impegno, alla presa di coscienza che non si può vivere scollegati dai valori, cioè da quegli aspetti concreti ed ideali di noi stessi che non possiamo barattare con nulla e che costituiscono la meta di un percorso che richiede impegno, merito, fatica e fiducia nel futuro. E’ compito degli adulti, almeno degli ultimi adulti responsabili, restituire la certezza del futuro ai nativi precari, così tanto deideologizzati e così tanto abituati al provvisorio da non essere in grado neanche di balbettare il loro “no” allo scippo del futuro, condannati ad una sorta di sospensione esistenziale.

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