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Le badanti sanno che la parola cura perché assistere una persona con una patologia cronico-degenerativa non significa solo supportare i bisogni primari, quasi sempre bisogna farsi carico anche dei bisogni di relazione: la parola può alleviare il dolore di una malattia dal decorso segnato

Per ragioni professionali, negli ultimi dieci anni ho avuto modo di parlare con molte donne, per lo più straniere, che per lavoro facevano la badante. Le ho intervistate per le mie ricerche sul lavoro di cura, incontrate alla presentazione di libri (quasi sempre di giovedì pomeriggio, giorno libero per molte lavoratrici del settore), avvicinate durante gli eventi di associazioni e gruppi.

Ho sempre trovato in loro una grande consapevolezza professionale: benché lo si consideri un lavoro di ripiego – o nel migliore dei casi un’“occupazione ponte” verso posizioni “migliori” – in termini di orari, coinvolgimento e valorizzazione del capitale umano, il lavoro di cura ha una forte identità professionale. E ciò non perché la cura sia una delle propensioni naturali dell’essere umano o, meglio, lo è (e non solo per le donne, beninteso), ma questa sua “naturalità” non ne riduce il significato a una propensione spontanea verso l’accudimento. Una cosa che ho capito incontrando le lavoratrici e i lavoratori è quanto nel lavoro di cura sia importante la parola.

Le badanti sanno che la parola cura perché assistere una persona con una patologia cronico-degenerativa non significa solo supportare i bisogni primari, quasi sempre bisogna farsi carico anche dei bisogni di relazione: la parola può alleviare il dolore di una malattia dal decorso segnato. Tuttavia la parola cura anche in un altro senso. Qualche anno fa nell’ambito di una ricerca sul lavoro di cura ho realizzato dieci focus group con badanti e assistenti familiari. Ritornando con la memoria a quei pomeriggi c’è un episodio ricorrente.

Uno dei compiti fondamentali del moderatore di un focus group e far sì che ogni partecipante ascolti cosa hanno da dire gli altri, evitando soprattutto che si formino sotto-gruppi intenti a discutere per conto proprio. Riascoltando le registrazioni di quelle discussioni mi accorgo che ho disatteso più volte quest’impegno: il commento collettivo, con i vicini di sedia, con l’amica dall’altro lato del tavolo è stato frequente.

Il “disordine” della discussione era la misura di un’urgenza narrativa difficile da arginare o irreggimentare in turni di parola ordinati: quando le lavoratrici si interrompevano non era per scortesia ma perché, quanto raccontato dall’altra, aveva sollecitato un ricordo, un’analogia, un esempio che si temeva di dimenticare. Al termine di ogni gruppo, al momento del congedo, quando il ricercatore ringrazia i partecipanti per il contributo offerto, alcune volte veniva fatta una richiesta solo all’apparenza strana: quando facciamo un altro incontro? Nelle due ore precedenti, le lavoratrici avevano scoperto il senso della comunanza, del mettere in comune le storie personali, arrivando a capire che la pulsione all’auto-narrazione si era trasformata in un racconto collettivo, la storia di una era diventata la storia di tutte. Si erano prese cura l’una dell’altra

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