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Dopo un quarto di secolo dal suo primo utilizzo, il termine post verità ha assunto oggi un significato ampio, tale da definire un vero e proprio concetto filosofico, a suo modo un “valore” non unicamente semantico che viene sempre più a configurarsi come un elemento costitutivo della postmodernità

1992 – Nihil sub sole novum. La post-verità e la disinformazione di massa
Come noto, il termine post-verità è un neologismo che traduce in italiano l’espressione inglese post truth, sintagma molto probabilmente coniato ed utilizzato per la prima volta nel lontano 1992 da Steve Tesich (1942-1996), uno scrittore e drammaturgo statunitense di origini serbe, autore del romanzo Karoo e, soprattutto, noto per aver sceneggiato alcuni film di successo, tra cui Breaking Away di Peter Yates, per il quale vinse un Oscar per la migliore sceneggiatura, Uno scomodo testimone sempre per la regia di Peter Yates e Il mondo secondo Garp, diretto da George Roy Hill e interpretato da Robin Williams.

Nel suo articolo intitolato A Government of Lies, pubblicato nel gennaio del 1992 dallo storico periodico di ispirazione progressista “The Nation”, Tesich rifletteva sostanzialmente sul rapporto tra potere e verità e sull’effetto che tale rapporto aveva prodotto, nel corso degli ultimi due decenni, nel popolo statunitense, riguardo alla sua percezione della bontà e della libertà dell’informazione. Il tema dell’informazione libera è un argomento considerato assai importante dalla società americana; l’informazione libera costituisce infatti per gli statunitensi uno degli elementi fondamentali per la valutazione del grado di democrazia delle loro istituzioni e in generale della loro società.

Il drammaturgo serbo-americano, considerando alcuni scandali che avevano colpito l’opinione pubblica statunitense e scosso profondamente l’intero establishment, in particolare i casi Watergate (1972) e Irangate (1988), notava come gli americani avessero progressivamente “cominciato a rifuggire dalla verità” e, in ossequio all’interesse nazionale, fossero “giunti ad equiparare verità e false notizie”. Amaramente, Tesich scriveva: “…we didn’t want bad news anymore, no matter how true or vital to our health as a nation. We looked to our government to protect us from the truth”.

Altri casi “scandalosi” avrebbero allungato, tra oculate operazioni di disinformazione di massa e tardive ammissioni di informazione ingannatrice, peraltro costellate da opportune e sapienti manovre di false flag, la lunga lista delle “bugie istituzionali”, in particolare quelle relative ad iniziative di politica estera e ad operazioni militari in teatri critici. Tra questi scandali, un esempio che farà certamente scuola è quello tessuto con le “bufale” sulle cosiddette armi di distruzione di massa costituenti l’ipotetica letal weapon del presidente iracheno Saddam Hussein.

Tali “bufale” furono orchestrate e propalate ad arte – anche e soprattutto grazie allo sviluppo della ICT (Information and Communication Technology) e dall’uso di massa di internet – dai più alti vertici politici e militari della coalizione multinazionale guidata dagli USA durante la lunga guerra che l’Occidente mosse all’Iraq (2003-2011). Esse, tuttavia, erano già state preannunciate, sperimentate e rese operative durante la prima guerra del Golfo (1990-1991), con il fine evidente di orientare l’opinione pubblica statunitense e quelle degli Alleati. Come tutte le false verità fabbricate per presunti interessi “nazionali” o comunque utili alla “linea governativa” (the so-called "front" government line, come scriveva Tesich), anche queste celavano gli scopi particolari e privati della party line (per dirla sempre con Tesich), delle lobby dei petrolieri, e contribuivano ad accompagnare, sul versante della formazione delle opinioni, la strategia di penetrazione militare degli USA nel Vicino e Medio Oriente ideata dai circoli neocons, in coerenza con la cosiddetta geopolitica del caos. Dunque post-verità, verità alternativa, pura propaganda per inquinare e disinformare dall’alto le opinioni pubbliche di mezzo mondo, utilizzando i canali di informazione che la più recente tecnologia mette a disposizione. Davvero nulla di nuovo sotto il sole!


2004 – L’ideologia della post-truth al tempo della rete

Bisognerà attendere il 2004 per assistere ad un revival dell’espressione post-truth. Il giornalista Eric Alterman, nel solco della denuncia politica cara alla tradizione progressista statunitense, scrive di “ambiente politico della post verità” e di “presidenza della post verità” in riferimento all’Amministrazione Bush dopo l’11 settembre (When Presidents Lie: A History of Official Deception and Its Consequences).

In quello stesso anno, il prolifico ed eclettico scrittore statunitense Ralph Keyes dà alle stampe The Post-Truth Era: Disohonesty and Deception in Contemporary Life. L’espressione post-truth esce allora dal perimetro della sola denuncia politica ed evolve in un concetto sociologico tale da definire un’epoca, secondo l’originale interpretazione di Keyes. Ralph Keyes osserva che oggi è tutto mescolato, non ci sono più confine netti. Un tempo c’era la verità e la menzogna, oggi abbiamo verità, menzogna ed affermazioni non vere che non possiamo chiamare però false, argomenta Keyes. È, in pratica, l’era della confusione, diremmo noi. In questi anni hanno particolare successo tutte le tesi cosiddette “complottiste” le quali, oltre a suscitare ed alimentare infinite discussioni nei vari forum e blog telematici, hanno la forza di persuadere vari settori della popolazione mondiale, creando movimenti di opinione di una certa consistenza.

La pervasività della ICT amplifica a dismisura, globalizzandoli, anche altri concetti provenienti dalla cultura statunitense quali, ad esempio, il politically correct, che diviene il criterio cardine per legittimare o delegittimare noti personaggi pubblici, per incoraggiare o stigmatizzare comportamenti sociali. False notizie mescolate a verità, informazione corretta intrisa di gossip, giornalisti che diventano intrattenitori, telegiornali che strizzano l’occhio ai talk-show, tutto ciò apre un dibattito, tuttora in corso, sulla funzione etica e sociale dell’informazione.

A fronte di quanto sinora esposto, occorre anche considerare l’impatto delle nuove tecnologie nella ideazione e realizzazione di prodotti cinematografici e televisivi che godranno di vasta popolarità – come il film Truman Show di Peter Weir (1998) o il reality show Big Brother (1999) – ed anche, successivamente, nella creazione di nuove reti sociali come Facebook (2004) che implementano e rendono “concreta” la percezione di una realtà altra, virtuale, fornitrice, direttamente ed indirettamente, di verità “altre”, “alternative”, “virtuali”.

Dopo pochi anni, saranno il politologo francese, Dominique Moïsi, e il blogger David Roberts a riportare l’attenzione sul concetto di post verità. Nel 2009, in Geopolitica delle emozioni, Moïsi sostiene che la diffusione nella rete di false verità, basate su emozioni e convinzioni personali, tende a offuscare la verità basata sui fatti obiettivi, mentre l’anno successivo, David Roberts nel sito Grist argomenta come la post verità definisca lo scollegamento tra la realtà fattuale e le affermazioni dei politici. Nel corso di neanche un ventennio, il termine post verità da semplice espressione connessa alla critica politica è evoluto prima in un concetto sociologico, poi in un paradigma analitico.

2016 – Post- verità: il nuovo “mantra” della postmodernità
A far data dal 23 giugno del 2016, giorno in cui i Britannici espressero la loro volontà di “secedere” dall’Unione Europea, il sintagma post verità ha goduto di un impressionante incremento della sua popolarità e del suo utilizzo. La popolarità del neologismo si è accresciuta ulteriormente nel corso della seconda metà dello scorso anno, facendo da costante contrappunto all’andamento della campagna elettorale statunitense. L’uso del termine post verità, ormai globalizzato, ha convinto il comitato editoriale degli Oxford Dictionaries ad eleggerlo parola dell’anno nella accezione sostanzialmente individuata da Moïsi, cioè di una parola “relativa a circostanze in cui i fatti sono meno influenti, nel formare l’opinione pubblica, del ricorso alle emozioni ed alle credenze personali”.

Una definizione quella degli Oxford Dictionaries quanto mai calzante, quando si vogliono sinteticamente definire dichiarazioni come quelle di affidarsi all’intuizione di madre nella decisione di vaccinare o meno i propri figli, piuttosto che a più fondate argomentazioni razionali e scientifiche. Ma molto probabilmente, quella del prestigioso dizionario è una definizione ancora non del tutto completa.

Oggi, dopo un quarto di secolo dal suo primo utilizzo, il termine post verità ha assunto, infatti, un significato ampio, tale da definire un vero e proprio concetto “filosofico”, a suo modo un “valore” non unicamente semantico che viene sempre più a configurarsi come un elemento costitutivo della postmodernità. Sembra essere uno dei paradossi del nostro tempo, il tempo del pensiero unico. Un pensiero unico, una unica verità? Quanto siamo lontani dalla aletheia! Dalla verità cioè definita come svelamento. Invero, anche la post verità può aiutarci a “scoprire” la verità, giacché, in un modo o in un altro, ci obbliga a riflettere ancora una volta sulla verità e sulla sua essenza.

È doveroso ricordare, nell’era della post verità (ennesimo sintomo del nichilismo compiuto?), ciò che scriveva Nietzsche “le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete” (F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, trad. di Giorgio Colli).

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