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Come ri-mettere il demos al centro della democrazia? È il grande quesito dei nostri tempi. È la sfida posta, anche se in modo implicito e ambiguo, dalle diverse espressioni del populismo…

Come ri-mettere il demos al centro della democrazia? È il grande quesito dei nostri tempi. È la sfida posta, anche se in modo implicito e ambiguo, dalle diverse espressioni del populismo. Concetto a sua volta sfuggente, ma comunque utile, nel momento in cui sottolinea le contraddizioni della democrazia (rappresentativa), puntando il dito contro le sue deviazioni di tipo oligarchico. In questa zona grigia si muovono (e prosperano) gli attori populisti, suggerendo soluzioni spesso inesplorate, e talvolta spericolate. Le quali, tuttavia, sono il riflesso di problemi reali: la crescente incapacità della democrazia (rappresentativa) di generare consenso; il discredito che colpisce le istituzioni della rappresentanza; la crisi dei corpi intermedi e, in particolare, dei partiti politici.

Alcuni dati dal caso italiano illustrano in modo esemplare tale scenario. Pensiamo al Parlamento, il “tempio” della democrazia rappresentativa: appena una persona su dieci – secondo i dati del rapporto Demos&Pi su Gli Italiani e lo Stato – dichiara di avere fiducia nella massima assemblea elettiva. Pensiamo ai partiti, la principale “infrastruttura democratica” novecentesca: la fiducia nei loro confronti è di appena il 6%. Non solo: quasi una persona su due (48%) ritiene che la democrazia possa “fare a meno” dei partiti.

Sette persone su dieci (69%) sposano comunque l’”ipotesi Churchill”: vedono, cioè, la democrazia come la migliore “forma di governo”. A dispetto di tutti i suoi difetti. Eppure, almeno dalla transizione dei primi anni Novanta, la democrazia italiana convive con elevati tassi di insoddisfazione. Che generano tensioni al suo interno. Ma anche spinte di tipo riformatore. La fine della “democrazia dei partiti”, che nella Prima Repubblica aveva assunto forme idealtipiche, ha lasciato spazio all’idea di una “nuova democrazia”, cui si associa un preciso progetto di riconfigurazione dell’assetto istituzionale: in senso maggioritario, bipolare e tendenzialmente “presidenziale”, associato a una riorganizzazione in senso federale dell’articolazione territoriale dello stato.

A 20/25 anni di distanza, tutti i pilastri di tale progetto sembrano sgretolarsi. Il federalismo non ha prodotto i risultati sperati, nel tentativo di ricomporre la frattura tra cittadini e istituzioni. Anzi, le regioni – al centro, nei decenni scorsi, di un significativo trasferimento di poteri – hanno visto il proprio apprezzamento scendere di oltre quindici punti (in circa quindici anni). Così, l’insoddisfazione per il governo locale ha innescato una spinta verso la ri-centralizzazione. Anche il bipolarismo appare ampiamente in discussione. L’assetto tripolare consegnato dal voto del 2013 si è consolidato, negli orientamenti di voto degli italiani. Mentre i blocchi tradizionali, di centro-sinistra e centro-destra, tendono a disgregarsi.

Infine, l’esito del recente Referendum costituzionale non solo ha segnato una brusca battuta d’arresto, rispetto al percorso maggioritario intrapreso con la nascita della Seconda Repubblica: per molti versi, ne ha invertito il senso di marcia. Un effetto perverso, rispetto agli obiettivi dei suoi promotori.

Il disegno di revisione istituzionale messo in campo dal governo Renzi, del resto, si proponeva di chiudere la transizione aperta vent’anni prima, istituzionalizzando trasformazioni di fatto già intervenute nella meccanica del sistema politico italiano. La riforma costituzionale Renzi-Boschi, se approvata dai cittadini, avrebbe rafforzato significativamente la posizione del governo rispetto al parlamento. Mentre l’Italicum avrebbe garantito una solida maggioranza al partito vincitore e al suo candidato-premier. Nel complesso, si trattava, dunque, di un progetto fortemente orientato ai principi della velocità e della decisione. E al ruolo del leader: di governo e di partito.

Lo scontro tra partiti si è però tradotto nella netta bocciatura dello scorso 4 dicembre, con quasi il 60% di NO. Mentre il recente intervento della Corte costituzionale ha amputato la seconda gamba della riforma renziana – l’Italicum – privando la legge elettorale del suo elemento majority assuring: il ballottaggio. Rimane il premio di maggioranza, ma vincolato alla soglia, oggi difficilmente raggiungibile, del 40%. Previsto, in ogni caso, per la sola Camera dei deputati, mentre al Senato già vigeva un sistema puramente proporzionale.

Nel clima di incertezza che caratterizza lo scenario post-referendario, sono molti gli elementi che sottolineano un ritorno al passato. Addirittura, il possibile ritorno alla Prima repubblica. La Terza Repubblica immaginata da Renzi – orientata alla velocità, alla governabilità, alla decisione – consegna alla lenta contrattazione tra partiti il compito di formulare le scelte politiche. Prima ancora, di costruire una maggioranza e un governo. La democrazia rappresentativa italiana vira così, in modo deciso, verso la sua dimensione parlamentare e partitica, dopo vent’anni nei quali si era progressivamente allontanata da tale modello. Un cambio di paradigma che, già in questi giorni, sta producendo effetti visibili nella tendenza alla frammentazione dell’offerta politica.

Tuttavia, la “democrazia dei partiti” ha “funzionato”, in Italia, per una lunga stagione, perché fondata su un “certo tipo di società”, un “certo tipo di elettore” e un “certo tipo di partiti”. Oggi la società novecentesca, con le grandi fratture che la attraversavano, non c’è più da tempo. Così come i partiti hanno subito una profonda metamorfosi. Durante la Seconda Repubblica, la “democrazia dei partiti” è stata sostituita dalla “democrazia del pubblico”, centrata sulla mediatizzazione e la personalizzazione. Tale modello non ha riavvicinato società e “palazzo”. Ciò nondimeno, le regole della politica post-moderna sono state interiorizzate dai suoi attori. E dagli stessi cittadini: l’idea di poter scegliere non solo i propri rappresentanti, ma, direttamente, il governo e persino il Presidente del consiglio sono ormai ampiamente diffuse. E rispondono a una esigenza concreta: quella di accorciare la catena di trasmissione della volontà popolare. Al contempo, si è fatto sempre più stretto il rapporto tra le dinamiche del consenso e le logiche mediatiche, che a loro volta mettono in scena la corsa tra leader.

Sembra dunque configurarsi quella che potremmo definire democrazia a due tempi: 1) un tempo per la campagna elettorale, caratterizzato dal confronto muscolare tra leader e dalla rincorsa (impossibile) al 40%; 2) Un tempo per la fase post-voto, nella quale i tanti sconfitti (e qualche parziale vincitore) dovranno cercare un difficile accordo per la formazione di una maggioranza. Con il rischio di riproporre quel mix di instabilità e ingovernabilità sperimentato dopo il voto del 2013.
Nel quale l’unico esito possibile sembrerebbe essere una riproposizione delle grandi alleanze.

Si tratterebbe dell’alternanza, schizofrenica, tra le logiche della Prima e della Seconda Repubblica, che potrebbe alimentare l’insoddisfazione dei cittadini ed esasperare le tensioni che, da tempo, si sono sviluppate all’interno della democrazia rappresentativa in Italia.

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